Intervista di Claudio Baglioni a Il Fatto Quotidiano in edicola oggi, lunedì
18 novembre.
http://mentiinformatiche.com/2013/11/claudio-baglioni-e-un-artista-di-62-anni-con-una-carriera-di-45-un-disco-appena-uscito-e-un-tour-lungo-tutto-il-2014.html
di Silvia D’Onghia Una terrazza sul Cupolone. Stormi
di storni. L’orizzonte di Roma è velato da un tramonto autunnale. C’è
qualche nuvola in lontananza. “Quello che vedi oggi domani non sarà più.
È per questo che, appena ho tempo, mi siedo qui. Non per fare la maglia
o fumare la pipa come si addice a uno della mia età, ma per ammirare la
bellezza. Peccato non si possa vivere di sola bellezza”. Claudio
Baglioni è un signore di 62 anni, 18 album di inediti, 9 dal vivo, 8
antologici, 10 dischi d’oro e 4 di platino, 31 tour tra Italia e resto
del mondo, centinaia di migliaia di persone radunate in 40 e passa anni
di carriera. E pensare che alla Rca la davano per perdente… Il primo fu
l’allora direttore artistico, Ettore Zeppegno. Lo scrisse a pennarello
sulla lacca di un provino fatto nel 1967, che lui ascoltò nel ’68:
“Tanto questo non farà mai niente”. Tre anni dopo, alla consegna del
master di Questo piccolo grande amore, il direttore subentrato, Riccardo
Michelini, bollò il singolo: “È una buona facciata B”. Lavorammo per
sette giorni per cercare una canzone più efficace di quella. Ma non ci
riuscì. Grazie al cielo. E invece, 45 anni dopo, è ancora qui. Il 22
ottobre ha presentato il suo ultimo disco di inediti, “Con Voi ”, che da
maggio era stato pubblicato canzone dopo canzone su iTunes, e non
passa giorno in cui non firmi autografi in ogni città. Se lo aspettava?
No. Anche per la lettura delle vicende artistiche e professionali di
altri miei colleghi. Sarà per una questione geometrica, ma c’è una curva
nella storia di chiunque, un diagramma per il quale sai che, arrivati a
un certo punto, la salita è impossibile e il mantenimento sulla stessa
quota è molto difficile. Uno si abbandona a una dolce ridiscesa verso le
pianure. Quindi questa attenzione è una fantastica sorpresa.
Immaginando il titolo di questo album, un po’ autoriferito e vagamente
ruffiano, mi ero detto: se arriverò al completamento, vorrei
confrontarmi con i destinatari di questo lavoro. Il bagno di folla è
rigenerante, ma io vorrei riconoscere a queste persone la loro scelta,
il loro sacrificio, il loro affetto. Ed è una reazione per me
inconsueta: al tempo di “Oltre” (1990) io scappai, non avevo più la
voglia di esserci. Sono le situazioni in cui pensi che quello che conta è
solo quello che hai fatto, che qualsiasi cosa tu aggiunga rischia di
diventare una banalizzazione. Anche perchè, in fondo, lei è un timido…
Prima di diventare quello che sono, ero quello che non veniva mai
notato. Da ragazzo, alle feste, se anche mi avessero messo accanto una
freccia luminosa con la scritta ‘Claudio è qui’, non mi si sarebbe
filato nessuno.
Faccio un mestiere per il quale non sono geneticamente predisposto.
Però ora sento il dovere di rappresentare quello che ho fatto. E allora,
pur amando la penombra, esco un po’ di più allo scoperto. La sua
biografia è piena di numeri primi: suo il primo concerto ad essere
trasmesso in diretta tv, è stato il primo artista italiano a fare un
tour negli stadi e il primo a fare il remake di un proprio disco, oggi
il primo a pubblicare un intero album su iTunes. La fa sentire solo,
essere un numero primo? È straordinario, perché vuol dire che sei
vivente, vivace, hai un che d’irrequieto dentro. Ma è una propria regola
di ingaggio, ti senti investito della sindrome da primogenitura. Se una
volta ti riesce di tirare fuori dal cilindro un coniglio, poi devi
tirare fuori una mucca e poi un elefante, e però il cilindro è sempre
quello. E poi a citare i propri precedenti, si finisce per fare la
figura del reduce e dell’“ai tempi miei”. La vertigine è affacciarsi
sulla contemporaneità. A differenza di “Oltre”, che era un progetto
finito, “Con Voi ” è un “convoglio”, traduzione dell’inglese “convoy”.
Non può più scappare. Si è inchiodato da solo? Sto usando dei pretesti
per mettermi ancora in cammino. La musica stessa fu un pretesto quando
cominciai: avevo 15 anni, vivevo in periferia, avevo gli occhiali
spessi, le bolle sulla pelle, dovevo trovare un sistema di affermazione
per non fare tappezzeria sulla superficie del mondo. Per un artista vale
la stessa cosa: devi trovare per continuare a lavorare, e non perché
uno non abbia più alcuna ispirazione. Ma un motivo sì. I Beatles
quantificavano i loro pezzi: “Con questa strofa ci facciamo la piscina,
con il ritornello il campo da tennis… ”. Il mestiere intellettuale è una
frode: non vedi mai quanto hai fatto. Alcuni pretesti sono piccoli
sogni infantili. La carovana stessa è un sogno: prendere la strada e non
avere una destinazione certa. Questo non è un incantamento nei
confronti del pubblico, sono io che lancio lo sguardo sempre un po’ più
lontano, per darmi un traguardo. In “Co n Vo i ” c’è tanto passato,
tanto presente e tanto futuro. Come stanno insieme? Questo è uno dei
miei album più concettuali, nonostante ne abbia scritto un pezzo alla
volta. Stanno insieme sull’oggi, e l’oggi è già un tempo largo. Anche lo
stesso concetto di ricordo è attualizzato su quello che sta accadendo.
Per poter descrivere un’emozione, un salto di voce, bisogna muoversi
molto indietro e avere l’illusione di andare avanti. Però al futuro
comincio a essere disinteressato: sarà per l’età, sarà che forse ci
abbiamo pensato tutta la vita, ma è talmente inesistente… Ho rimandato,
per tanti anni, questo album (arrivato dieci anni dopo “Sono io, l’uomo
della storia accanto”, ndr) per togliermi alcune voglie da interprete
puro e per riscrivere e ricomporre parti importanti della carriera. Un
canto di sirene al quale non ho saputo resistere. Il futuro è un’arma di
distrazione di massa, con cui qualsiasi ciarlatano vince, da colui che
ti legge le carte a colui che ti arruola per un progetto. Tutti
continuano a parlare di futuro ed è la fottitura più alta. L’unico
valore che abbia senso è il presente.
Che è anche, giocando con le parole, il solo dono che ci è dato.
Restiamo nel passato. Claudio Baglioni ha rimpianti e rimorsi? Il
rimpianto è di essermi preso, talvolta, un po’ troppo sul serio. E aver
preso troppo sul serio la caccia al capolavoro: il che significa entrare
in una forma ossessiva di se stessi e in un credersi superiore rispetto
alle proprie forze. I rimorsi sono quelli di tutte le persone
pubbliche. Pavese scriveva nel suo diario del suo essere scrittore: “È
inutile che cerchi un’anima gemella quando stai cercando un pubblico”.
Il rimorso è per gli affetti più vicini, mai abbastanza curati,
accarezzati. Francesco De Gregori ricorda due vostre avventure: una
suonata per strada, senza essere riconosciuti, e un appuntamento
cinematografico. La prima è nota, ma il secondo? Andammo a pranzo
insieme, poi io mi ricordai che c’era un appuntamento con un produttore e
gli chiesi di venire con me. Cazzeggiammo tutto il tempo e lo prendemmo
in giro con battute scadenti. Si rivolse a me: “Lei lègge?”. “No, io
architettura”. E Francesco che insisteva per avere una parte da
chitarrista. Invece qualche anno prima io e Battisti avremmo dovuto fare
un noir tipo “Romanzo criminale”, due malviventi di periferia, lui
moriva e io facevo l’ultimo commovente discorso prima della fine. Una
volta mi proposero addirittura un iperbolico film di fantascienza con
molto sesso dentro. Adesso lo farebbe un film? Io guardo il cinema con
stupore e ho un’invidia micidiale per gli attori, ma sarei un incapace.
Dovrei scegliere un genere in cui si recita sempre di spalle e non si
dice niente. Alcuni anni fa avevo scritto un soggetto, “Sotto silenzio”:
un film muto. Ma non potrei mai fare l’attore anche per un problema di
disciplina: ti svegli all’alba, stai 15 ore truccato per dire una
fondamentale mezza battuta in mezzo a mille persone con cineprese,
microfoni… È un capolavoro di paradossi. Negli anni Settanta la
accusavano di non essere un cantautore impegnato. Questo la feriva? Mica
mi faceva piacere. Oggi, a 62 anni, se ti dicono che non sei
reclutabile in nessuna parrocchia e che sei indipendente, ti senti un
figo pazzesco. Ma se te lo dicono a 18 anni, quando hai bisogno del
branco, è una cosa che ti fa soffrire. Ho anche provato, sbagliando, a
scimmiottare qua e là. Poi nel tempo uno rivaluta. Erano anni di
stampelle e barricate ideologiche. Però meglio quelli che la melma di
oggi. Ecco, parliamo della situazione politica. Assomiglia a quando un
personaggio pubblico non produce nulla se non autoreferenzialità. La
situazione è sotto gli occhi di tutti, anni di fermo e di deperimento
delle energie, delle capacità. La classe politica dovrebbe dimettersi
tutta. I partiti e gli esponenti della classe dirigente rappresentano
solo loro stessi. Io come cittadino non intendo più andare a votare con
questa legge elettorale e l’odierna configurazione dei partiti. Sono
stufo, poco logico, amareggiato e vedo che tanta gente è così. Anche se
nessuno di noi può chiamarsi fuori: siamo tutti complici del
disinteresse. Si tira a campare e si fatica ad individuare una reale
novità nello scenario generale. Neanche Grillo? Se Berlusconi non è mai
stato un vero politico, non lo è neanche Grillo. Come per tutti i
mestieri, anche per la politica ci vuole un percorso, una formazione. E
le intemerate e i “vaf – fanculo” potrebberero non servire se non sono
preambolo di proposte e visioni. In ogni caso la personalizzazione in un
solo leader o in pochi funzionari di partito non tiene più. La classe
politica è lo specchio dei cittadini? Vorrei tanto pensare che sia
peggiore, ma temo che non sia così. Altrimenti la soluzione sarebbe
semplice: li cambiamo e basta. E ci siamo illusi già ai tempi di Mani
Pulite. Un altro dei fallimenti della politica è la gestione
dell’immigra – zione, la cosiddetta emergenza, parola che lei odia. Non è
mai stato fatto nulla di significativo. L’opinione pubblica è stata
disinformata, sono 25 anni che questa storia dura. Poi ci sono i morti,
l’impatto emotivo, le passerelle. La tragedia, dopo la morte di tante
persone, è la morte della nostra partecipazione. E la politica è
ignobile, quando ha la faccia di culo di promettere rimedi. Sarebbe più
corretto dire: ho altro a cui provvedere o addirittura non me ne frega
niente. Stiamo facendo un’intervista molto ottimista, ne esce un futuro
roseo… (ride) Quando uno diventa grande si sente sempre meno ottimista.
Io non sono mai ‘partito’ con un ‘partito’ preso, da ragazzino nei
cortei rischiavo insulti e botte sia da sinistra che Facciamo calare i
tedeschi? Io mi farei amministrare volentieri dal più onesto e
illuminato, che mi frega se è italiano, svedese o tedesco. Certo, vorrei
avere la possibilità di eleggerlo, ma tanto non posso eleggere manco
questi. Cambiamo argomento. Qual è il suo rapporto con la tv? La tv ha
avuto meriti straordinari: ha accomunato le popolazioni italiche in una
stessa lingua, le ha alfabetizzate. È ancora il mezzo e il teatro più
grande. Ma ha un problema serio: deve trasmettere continuamente. Non può
scegliere la qualità perché deve riempire gli spazi. Le faccio un
esempio. Noi artisti non televisivi in tv diamo il peggio, perché
andiamo a fare i piazzisti, a vendere il “prodotto”. Un tempo in
televisione provavamo giorni prima della messa in onda. Oggi arrivi
all’ultimo istante, spesso chi ti intervista non è neanche tanto
informato, l’esibizione è raffazzonata. Così butti via le cose. Ma lei
la guarda? Voglio smettere di seguire gli approfondimenti. Per anni ho
creduto che i talk show fossero contenitori di crescita e invece non lo
sono affatto o non più. Va in onda una compagnia di giro: ci sono
giornalisti che stanno in 5 trasmissioni a raccontare quel che già
sappiamo tutti, sedicenti politici che non ho capito dove trovino il
tempo per svolgere il loro servizio che fanno il tour dei programmi.
Molta tv esiste per questo: per il niente. Torniamo a lei. Prima di “O l
t re” c’erano stati i fischi al concerto di Amnesty International a
Torino, un brutto incidente d’auto e la separazione dalla sua prima
moglie, Paola Massari. La musica nasce dal dolore? Raschiare il fondo fa
riacchiappare le suggestioni più intense. Io quest’anno ho avuto
un’assenza grande. Ci sono due date decisive nella vita di una persona:
la propria nascita e la morte della madre. Questo evento crea una
rielaborazione dell’esisten – za, è come tornare in un ambiente che
avevi chiuso a chiave, sul quale avevi messo panni e coperte e si era
poggiata sopra la polvere. Qualcosa ti deve graffiare perché tu possa
riguardare alcune storie e metterne in discussione altre. Per questo il
dolore non finisce mai. È un esattore della vita. Sempre a proposito di
ottimismo… L’unico ottimismo reale è fare un passetto indietro. Tutti
possiamo essere ottimisti se ci giriamo indietro. Il guaio è guardare
ossessivamente l’orizzonte e voler essere ottimisti a tutti i costi.
Perché l’orizzonte è truffaldino e si muove come ti muovi tu, non lo
raggiungi mai. A marzo parte il tour “Co n Vo i ”, che recupera anche le
date saltate a ottobre, a Natale torna “Dieci Dita”, il concerto
solistico in cui il pubblico siede sul palco. Quando finirà la carovana?
“Dieci Dita” era pensato già tre anni fa come preambolo per una
costruzione di un concerto dal vivo “in progress”. Quest’anno diventa il
primo step della carovana. L’esperienza logistica del “vicino a tutti”
continuerà da marzo nei palasport, dove stiamo studiando un sistema
audio capillare e innovativo. Sarà uno show multidisciplinare, con
performance sorprendenti. Nell’ul – timo pezzo d’estate il convoglio
riparte. La conclusione di tutto sarà fine 2014. Un anno e mezzo di
musica nuova, di eventi e storie in divenire. Finirà davvero? Potremo
dirlo solo dopo aver visto l’effetto che fa. E se dovesse finire,
l’importante è non saperlo la sera prima ma, semmai, accorgersene il
giorno dopo.
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