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venerdì 17 maggio 2013

SCRITTI DI CLAUDIO BAGLIONI PER FACEBOOK MAGGIO 2013


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La prima volta che sono arrivato a Milano, avevo diciassette anni, i soldi contati per il viaggio e qualcosa che somigliava ad un contratto discografico in tasca.
Tutto quello che mi potevo permettere era una pensione così scrausa e sconosciuta che, quando ho detto il nome della strada al tassista, è sceso dalla macchina, ha preso la mia valigia, l’ha scaricata sul marciapiedi e, senza dire una parola, mi ha piantato lì. Non sapevo cosa fare. Pochi passi più in là, c’era un’edicola. Mi sono avvicinato, impacciato e disorientato, e ho chiesto all’edicolante se, per favore, poteva cambiarmi i soldi. “Vendo giornali – disse la donna, con il ghigno peggiore del suo repertorio – son mica una banca!” Non faceva una piega.
“Cominciamo bene”, pensai. Dovevo trovare il modo di raggiungere la pensione, ma proprio non sapevo che pesci prendere. Roma, casa, i miei, gli amici erano lontani mille miglia e certo non mi potevano aiutare. Ero stanco e senza idee. Il treno ci aveva messo quasi otto ore a portarmi fino lì. Oggi ce ne vogliono tre. Presto ne basteranno due e mezzo. Se me lo avessero detto allora, non ci avrei creduto.
(segue...)


Il fatto è che il mondo era un’altro mondo. C’erano i Beatles, i “capelloni”, la rivoluzione studentesca, le gonne si accorciavano sempre più e le donne cominciavano a fumare e portare i pantaloni, qualcuno – addirittura – osava baciarsi in mezzo alla strada. C’era la Guerra Fredda, il Muro di Berlino e l’uomo non era ancora andato sulla Luna. Ma soprattutto non c’era nulla di ciò di cui oggi ci sembrerebbe impossibile fare a meno: la Tv lcd (allora non era nemmeno a colori e aveva un canale solo il “Nazionale”), i canali satellitari, il dvd, il blue-ray, la videocamera e la macchina fotografica digitale, per non parlare di Internet, le e-mail, Facebook e Twitter, lo smartphone, l’iPod, l’iPad e compagnia cantando. A raccontarlo oggi, non sembra neanche vero. Rischi che qualcuno ti risponda: “Possibile che eravate così poveri?”. Eravamo anche poveri, è vero. Molto più di oggi, in verità. Ma quella non era questione di ricchezza o povertà: il fatto è che quelle cose proprio non esistevano! Quasi niente delle cose di cui viviamo oggi, allora erano immaginabili. Così come la gran parte delle cose di cui vivremo domani, lo sono oggi.
Al contrario di quello che sostiene il Gattopardo, dunque, le cose cambiano. Cambiano eccome. Sempre più in fretta. D’accordo: forse si nasce e si muore nello stesso modo, ma tutto quello che c’è in mezzo cambia. Perché, allora, quella sera non mi sono perso, né mi sono lasciato andare alla disperazione? Perché avevo diciassette anni, certo. Ma, soprattutto, perché avevo uno straccio di contratto discografico e il mondo era mio.
(segue...)
Negli anni ’60, il disco era tutto. Quel cerchio nero, di vinile, con migliaia di misteriosi solchi concentrici, ancora più sottili dei capelli, era un sole, in grado di illuminare il mondo. Il mondo intorno a noi e, ancora di più, quello dentro di noi. Per questo, quella sera, non finii disperso chissà dove e non mi lasciai prendere dalla disperazione, perché avevo un contratto e, prima o poi, avrei avuto il mio disco. E il mondo di dentro – e, se fossi stato fortunato, anche quello di fuori – sarebbero stati accarezzati dai suoi raggi. Il disco era tutto. Era lui il vero “social network” della generazione giovane, molto più della televisione. Sì perché la televisione era qualcosa di chiuso, ingessato, polveroso, “antico”. Roba da matusa, dicevamo allora. Parlava di cose che non ci interessavano e ne parlava con una lingua che non ci apparteneva e che non capivamo. Provate a cercare su YouTube un telegiornale degli anni ’60 e vi accorgerete di cosa sto parlando. Certe cose in televisione non si vedevano proprio. Di musica, poi, non se ne parlava praticamente mai. Al massimo poteva capitarti un servizio di cronaca nel quale qualche austero signore in vestito grigio, camicia bianca e cravatta nera, storceva il naso con supponenza di fronte alle scene di isteria collettiva durante un concerto dei Beatles o dei Rolling Stones. E noi ci chiedevamo perché proprio a noi era toccata la sfortuna di essere nati nel Paese sbagliato! W l’Inghilterra, nasce da qui. (segue...)
E poi la tv era qualcosa che ti teneva chiuso in casa e noi di stare in casa non ne volevamo sapere: volevamo uscire! Allora la distanza tra le genitori e figli era molto più grande di oggi. Incolmabile. Nessuno voleva stare con i propri genitori. Non ci parlavamo. Era inutile: tanto non ci capivamo. E non perché non volessimo capirci, ma perché il mondo come lo vedevano loro e quello che vedevamo (e volevamo) noi, erano così diversi che era impossibile trovare dei punti di contatto. Noi li consideravamo vecchi, e magari non avevano nemmeno passato i quaranta; e loro ci consideravano dei pazzi, “fuori di testa”, persi dietro a fantasie che non ci avrebbero mai portato da nessuna parte. Per questo la parola “libertà” animava quasi tutte le canzoni e ci faceva vibrare ogni volta che la sentivamo o la cantavamo: perché aveva un senso molto diverso da oggi. Era un’urgenza. Qualcosa di cui sentivamo di non poter fare a meno. Era questione di vita o di morte. Non esagero: o trovavamo il modo di renderci liberi o avremmo finito col soccombere e fare la vita dei nostri genitori. Una vita che a noi sembrava non avesse senso. Volevamo morire giovani, ma non nel senso di morire presto. Ma nel senso che, anche a cento anni, la morte ci avrebbe trovati ancora giovani. (segue...)

Al contrario della televisione, il disco non ci teneva chiusi in casa: ci faceva “evadere”; ci portava, anzi ci proiettava fuori. Uscivamo dalla famiglia che non ci eravamo scelti e andavamo verso la “famiglia” che ci sceglievamo noi. Una famiglia non solo “reale” - gli altri, gli amici, il gruppo – ma anche “ideale”: i giovani di tutto il mondo. Inglesi e americani, soprattutto, quelli che scrivevano quelle canzoni che ci facevano impazzire e che – grazie ai dischi – facevano il giro del mondo e arrivavano fino a noi. “I can’t get no satisfaction”, cantavano gli Stones e noi volevamo raggiungere quella satisfaction e sentirci vivi.
Oggi tutto questo sembra normale e, grazie alla Rete, la musica viaggia molto più velocemente e liberamente di allora. Ma negli anni ’60 era la prima volta che i giovani prendevano coscienza di esistere. Per la prima volta sentivano di avere una “voce” e, per la prima volta, volevano farsi sentire. Oggi chiunque può scrivere quello che pensa sul muro di Facebook o su quello di Twitter e i suoi pensieri, in un lampo, possono fare il giro del mondo. Allora il nostro mondo era il disco. E, dato che nessuno di noi poteva permettersi di girarlo davvero (i voli low cost erano di là da venire), lui girava il mondo per noi e lo portava da noi. (segue...)

La mia generazione è stata la prima figlia del mondo e non di questo o quel paese. Ascoltavamo e amavamo gli stessi dischi, creavamo e usavamo le stesse parole, vestivamo allo stesso modo. Il disco era il nostro social network: un social network rivoluzionario che aveva fatto scoccare la scintilla e, grazie al rock, al beat, al pop aveva insegnato ad un’intera generazione che aveva dei pensieri, delle emozioni e dei desideri e che era bene che si desse da fare per viverli e realizzarli. Senza i dischi, non ce l’avremmo mai fatta. Per questo li aspettavamo come non aspettavamo nient’altro; facevamo la fila ai negozi per accaparrarceli per primi, correvamo a casa di quello che aveva il giradischi più fico e, in religioso silenzio, li ascoltavamo. Anche più volte di fila. Alla fine (magari avevamo passato una o due ore immersi nella musica), si scatenava il dibattito. Se non conoscevi i gruppi o gli “Lp” più fichi, non solo non eri nessuno: eri fuori dal mondo. Lui stava partendo per il futuro: o saltavi su o saresti rimasto a terra. Per sempre. (segue...)


Quando una rivoluzione conquista il potere, diventa, inevitabilmente, conservazione. La storia lo insegna. E’ che non ha alternative, a meno di non voler perdere quel potere così faticosamente conquistato.
Il “rock” (intendendo la parola nell’accezione più ampia possibile) non ha fatto eccezione. L’energia creativa e innovativa degli anni ’60 non c’è più. E nemmeno la profondità e la maturità degli anni ’70. E non solo perché gli artisti che erano giovani in quegli anni adesso giovani non lo sono più, ma soprattutto perché tutte le strade, ormai, sono state esplorate.
In quegli anni, non solo ogni gruppo che nasceva aveva qualcosa di nuovo da dire, ma, spesso, anche i vari dischi di uno stesso gruppo erano profondamente diversi tra loro. Ogni band e ogni artista aveva davanti a sé più strade e, spesso, non si limitava a sceglierne una e percorrerla, ma sentiva il desiderio e, qualche volta, l’urgenza di cambiare strada. E’ soprattutto questa voglia di esplorare, di partire alla ricerca di linguaggi, sonorità, forme espressive nuove che ha reso quegli anni unici e davvero irripetibili. (segue...)

La musica non è finita, né finirà mai, ma è chiaro che quel tipo di musica (il “rock”, intendo) ha detto quello che aveva da dire. Di canzoni belle se ne scrivono ancora, è ovvio. A volte anche di bellissime, ma la portata rivoluzionaria e straordinariamente innovativa di quel ventennio si è inevitabilmente esaurita. Non è colpa di nessuno, ogni stagione descrive un arco ideale: nasce, raggiunge il proprio vertice creativo ed espressivo e, lentamente, si spegne per lasciare il posto ad una nuova corrente, una nuova tendenza, una nuova rivoluzione. E’ un processo naturale, che interessa ogni campo: filosofia, poesia, letteratura, arti figurative, linguaggi. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ma è proprio questo che consente alla creatività di andare avanti, continuando ad interessare ed affascinare, e a noi di non rimanere ostaggio sempre della stessa canzone, che si ripete all’infinito come accadeva una volta quando il disco si graffiava e il giradischi si “incantava”. (Da qui l’espressione: “ripete sempre le stesse cose, come un disco rotto!”. Nel mondo degli mp3 una frase del genere non sarebbe mai nata). In realtà si incantava solo il giradischi: noi non ci incantavamo affatto. Anzi. Ci rompevamo quasi subito e ci toccava dare un colpetto al giradischi, perché la puntina saltasse il solco “viziato” e l’ascolto potesse proseguire. Era chiaro, però, che quel disco era, ormai, arrivato a fine corsa e, se volevi risentirlo, non avevi altra scelta che ricomprarlo. Bei tempi: per i venditori di dischi, se non altro. (segue...)


Siamo tutti figli di quella straordinaria epopea rock e dell'oggetto che, più di ogni altro, l'ha incarnata e simboleggiata: l'Lp, il disco in vinile. Tutto dell'Lp è diventato leggenda, a partire dalla copertina. Ce n'erano alcune che erano delle vere e proprie opere d'arte. E poi c'erano i booklet, ricchissimi di testi, notazioni, crediti e fotografie... Ma degli Lp era leggendario soprattutto il suono. Quel suono caldo, intenso e profondo, che nell'immaginario collettivo di più di una generazione è rimasto sinonimo di una perfezione sonora mai più raggiunta. Un suono affascinante che la fredda perfezione dei cd non solo non è riuscita a superare, ma nemmeno ad eguagliare. Ancora oggi, quando si parla di dischi, tutti rimpiangono il suono dei vecchi vinili, e anche se – dagli anni '60 e '70 ad oggi - le tecnologie e le tecniche di registrazione hanno fatto passi avanti inimmaginabili, nulla è riuscito a detronizzare sua maestà l'Lp. Lo dimostra il fatto che in un mercato discografico che versa, purtroppo, in una profonda ed inarrestabile crisi, l'unico prodotto in controtendenza è proprio il vinile. Gli Lp stanno tornando e - anche se il loro rimarrà sempre un mercato di nicchia, frequentato da un ristretto pubblico di appassionati e cultori – il vinile sta vivendo una seconda, e totalmente inaspettata, giovinezza. Beato lui!
(segue…..)

Verso la fine degli anni '70, la musica ha cominciato a perdere quella centralità che aveva avuto nel ventennio precedente. Un po' perché il rock ha perso originalità e forza innovativa, un po' per il successo della “disco-music”, un po' per il boom dei video-clip. E' diventata “colonna sonora” e si è ritrova al servizio del ballo e delle immagini. Oggi la musica è ovunque. Non c'è un solo posto nel quale non si senta musica. Ma proprio il fatto che sia ovunque, ce la fa trascurare, dimenticare quasi. Ci siamo così abituati che non ci facciamo più caso. La sentiamo continuamente, ma non l'ascoltiamo più. Pensateci: quando è stata l'ultima volta che avete preso un disco, indossato le cuffie, spento la luce e avete ascoltato i pezzi dal primo all'ultimo (così come li ha pensati l'autore), senza interruzioni, né distrazioni? Come avete detto?


Penso che questo sia il tempo di trovare un'altra immensità, diventare liberi e di salvare la speranza nella verità. Ho passato gli ultimi anni a capire quale dovesse essere il senso del fare un mestiere come il mio nell'epoca della Rete e dei social network, nella consapevolezza che, se loro hanno cambiato, radicalmente, il nostro modo di vivere la musica, io dovevo cambiare il mio modo di farla. Non più chiuso in uno studio di registrazione, per tirar fuori un album che nasce già vecchio, ma le vostre voci, le vostre impressioni, i vostri stati d’animo sono la materia che mi permette di lavorare a canzoni letteralmente “nuove”, camminando, fianco a fianco, verso una meta che scopriremo  solo quando la raggiungeremo. Perché se c'è un fine in questo viaggio non c'è fine mai. Sarà un onore un privilegio essere gli eroi, se questo sogno sarà con voi.






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