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venerdì 5 dicembre 2014

PAOLA MASSARI RACCONTI DI VITA CON CLAUDIO BAGLIONI

Ho una notizia deludente, per voi.
Sapete una cosa?
La musa, non esiste.
Oppure, se c'è, è talmente incidentale da sottrarsi al battesimo dell'eternità.
Non che non trovi spiragli di luce per illuminare l'ispirazione del suo destinatario, no.
La musa ha patente e carta di identità, (libretto, meno).
Ma non conta che per il tempo di una suggestione.
Per poi lasciare spazio ad altra valenza.
La musa in verità è un tutto, raccolta di dettagli.
La musa è un volto, un ricordo, un respiro, una nostalgia.
Una poesia che riaffiora, un sogno solo sognato, uno avverato.
La musa è mezzo, e non fine.
Però ho anche una buona notizia.
Esiste lo scambio intimo dell'arte, che non chiede necessariamente folgorazioni, ma che folgora di percezione, intuito, limatura, costruzione, riflessione, rielaborazione.
E torno con un volo impetuoso e fulmineo a tanti anni fa.
La moquette è adesso verde. E i divani di camoscio marrone.
Ringhiere e dirimpettai anonimi, ma così accuratamente incorniciati dentro vite raccontate anche solo da un balcone.
Da quello scorcio di tende di cucina, nei profili di donne affaccendate ai fornelli.
Storie verticali.
Una sull'altra. Camere che svelano segreti e consuetudini.
Oggetti che narrano di altre storie, e l'abbandono fuori di piantine fragili e patite, una trascuratezza che addolora.
E riquadri di sole nel tragitto curvo di un tempo breve, in fuga fra un palazzo e l'altro.
E giorni e stagioni, fra note e parole su fogli gialli, ché solo su quelli si può scrivere un testo!
La musa è l'attimo che incarna il verbo entro lo spazio di una metrica il cui confine, seppure lo delimiti, abbraccia e schiarisce il ritratto che contorna.
Scrivere in metrica è un esercizio quasi enigmistico, eppure quelle sillabe che talora sgomitano fra loro, senza trovare lo spazio dovuto, quelle esatte irrinunciabili parole che vorresti infilare lì, che giri e rigiri senza riuscire a collocarle, trovano infine un folgorante accomodamento inatteso, e tutto si ricompone nella frase perfetta.
Lei. Solo lei.
Ed è letteratura.
Ecco che assieme a quella semplice risoluzione prende vita il senso di un racconto, ed ecco che la sintesi appare infine esaustiva e capace di rappresentare quel tutto celato.
È rivelazione pura.
Mille volte ho assistito al prodigio, che riconcilia con la quiete.
Che ricompone, tradotto in versi, il miracolo dell'arte.
E poi ci sono i minuscoli, preziosi, aneddoti cui attingere materia narrativa.
"Ti ricordi, Clà, le giostre in città?
Venivano lì, in una piazza del quartiere, che un tempo era tutta periferia, con poche attrazioni."
Con "tanta luce e poca gente e…"
"E?"
"E…
Mi ricordo a piazza San Giovanni di Dio, dove c'era il mercato, quello della mamma montanara.
Le giostre, in fondo, si andava a guardarle.
Si osservava, soprattutto, chi saliva e scendeva,
Era uno spettacolo da scrutare, più che da vivere.
Guardare era persino il solo scopo, molto spesso.
Già…
Sai che mi ricordo Clà?
Che avevo solo un gettone, da spendere! Uno solo, e che me lo tenevo a lungo in mano, rimandando di consumarlo, perché avevo un solo giro da fare sugli autoscontri.
"Sì… hai ragione… È vero… Un solo giro! Anche io, che tenerezza…"
Silenzio.
Sospeso.
Compreso.
Malinconico.
"E dai… perché ti sei commosso?
Così fai piangere anche me...
"Piccole giostre, con tanta luce, e poca gente."
E...
"E un giro soltanto!…"
E un giro soltanto…
Sì: Un giro soltanto…

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