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venerdì 28 marzo 2014

INTERVISTA BAGLIONI ALLA STAMPA DEL 26 MARZO 2014

http://lastampa.it/2014/03/26/cronaca/appuntamenti/baglioni-chi-mi-contest-nel-adesso-si-ricreder-XIA0zsEej3okCAMq79V0rL/pagina.html

Dopo il rinvio della tournée «Con Voi», il cui debutto era previsto lo scorso autunno in piazza Castello, Claudio Baglioni rilancia sul piatto di Torino con due show, in programma oggi e domani al Palaolimpico su iniziativa dell’agenzia Set Up Live. I concerti iniziano alle 21, ci sono ancora biglietti disponibili, soprattutto per il secondo. Prosegue così con il rinnovato «ConVoi Tour 2014», la lunga storia tra il cantautore romano e la nostra città.

Nel 1972 venne alla sede Rai di Torino per portare in tv il suo successo epocale, «Questo piccolo grande amore»: che città incontrò in quell’occasione?
«Avevo poco più di vent’anni e l’impatto fu fortissimo, quello rimane uno dei momenti più intensi e importanti della mia vita. Tutti descrivevano Torino come fredda, austera e distante, ma a me fece l’impressione di una città vera. Come una persona che prima di darti la sua fiducia vuole capire bene chi sei. In questo mi assomigliava e mi somiglia».

Nel febbraio 1979 poi partì da qui il suo primo grande tour nei palasport. Com’era il clima? C’era un po’ di timore ad affrontare certe piazze, erano i tempi degli anni di piombo e dei cosiddetti auto riduttori…
«Erano anni difficili, ma lo sono anche questi. Per certi aspetti anche di più. A quei tempi si aveva la sensazione di un Paese forte e compatto, che avrebbe reagito e superato il periodo drammatico. Oggi, per fortuna, il piombo fuori non c’è più. Però ce lo portiamo dentro. È quella sensazione paralizzante che il futuro sarà peggiore del passato e che ci rende, appunto, pesanti come piombo. Ci impedisce di sollevarci e tornare a guardare al futuro come alla parte migliore della nostra vita».

Se oggi o domani incontrasse qualcuno di coloro che la contestarono al concerto di Amnesty International dell’8 settembre 1988 allo Stadio Comunale, cosa gli direbbe? E che segnò lasciò in lei quella serataccia?
«La cosa più triste non furono i fischi. Chi fa questo mestiere li mette in conto. L’amarezza, anche se sono passati tanti anni, è per le decine di migliaia di persone che applaudivano entusiaste e di cui nessuno parla mai, mentre si torna sempre sulle poche decine che mi contestarono. Ricordo quell’episodio come un neo. Un neo, brutto ma non così grande, su un bel viso: il volto di una grande festa per Amnesty International. Questo, per me, è quello che conta. Sono sicuro che se qualcuno di quelli che fischiò venisse al Palaolimpico, avremmo entrambi un’ottima occasione per sanare una vecchia incomprensione».

E quanto invece le ha fatto piacere diventare torinese d’adozione, in buona sostanza, con l’inno «Và» che incise per le Olimpiadi Invernali e diresse in mondovisione?
«E’ uno dei momenti della mia carriera che ricordo con maggiore entusiasmo e passione. Donare un inno alle Olimpiadi è un privilegio immenso, forse perché il linguaggio universale della musica è quello che più si avvicina allo spirito, anch’esso universale, dei cinque cerchi. Gesto atletico e gesto musicale combaciano nel tentativo di dare all’espressione dell’uomo la forma più alta possibile».

Cosa ci dice dello show attuale?
«Avevo in mente un concerto come non se ne sentono più da tempo, e l’ho allestito. È uno show in cui la musica si riprende lo scettro di regina della serata, con me c’è un formidabile gruppo rock pop di 13 persone per più di 30 canzoni in tre ore mozzafiato senza interruzioni. Tengo molto alla scenografia, inoltre il live è ambientato in quello che abbiamo chiamato “cantiere della ricostruzione”, una sorta di non–palco in continua evoluzione».

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